XXIX.

Ugo Foscolo

Se il Monti è l’espressione piú vistosa delle vicende e delle tendenze di gusto, di costume sentimentale, di idee diffuse della sua epoca, il Foscolo (formatosi già nel pieno della crisi rivoluzionaria) è la coscienza poetica profonda dell’età che corre fra la rivoluzione, i suoi riflessi in Italia, la costituzione di stati italiani protetti dai francesi e dominati poi da Napoleone, il drammatico crollo di quella difficile epoca e il passaggio a quella della restaurazione: come lo è delle ideologie di quel difficile periodo e dell’urto fra i residui piú arcaici del gusto settecentesco e gli sviluppi del neoclassicismo e del preromanticismo verso l’epoca dominata dal romanticismo.

Dalla profonda e tormentosa partecipazione al proprio tempo nei suoi aspetti culturali, estetici, politici e dalla elaborazione personale della problematica storica scaturisce nello svolgimento dinamico della grande personalità foscoliana una grande poesia vigorosamente individuale e insieme nutrita dei succhi profondi della storia e capace di porre soprattutto poeticamente (ma anche in ambito politico, storico, critico-estetico) nuovi problemi e di intervenire e incidere cosí nella stessa storia e nella formazione delle prospettive risorgimentali e nello sviluppo successivo della letteratura italiana, da una parte riprendendo la lezione del massimo poeta italiano di fine Settecento, l’Alfieri, e dall’altra ponendo premesse feconde e problemi ai grandi protagonisti e in genere a tutta la letteratura di primo Ottocento.

Personalità drammatica, ma in assidua ricerca di un’armonia superiore che conciliasse le sue laceranti e opposte tendenze, le tensioni del suo mondo passionale e della sua problematica complessa, quella del Foscolo rivela già il suo segno distintivo di irrequieta ricchezza e di crisi mai interamente risolta nella stessa vicenda vitale del poeta, irta di vicende, di passioni, di impeti eroici e di delusioni profonde, di atti e gesti emblematici, di una esperienza e ispirazione non puramente letterarie anche se realizzate soprattutto nella letteratura e nella poesia e con un senso e un possesso profondo dello stile e dei suoi piú elaborati strumenti.

E insomma il Foscolo e la sua poesia ben dimostrano ciò che egli insegnava, sulla scorta dell’Alfieri, nella sua poetica e nella sua concezione del letterato, profondamente consapevole delle esigenze dell’arte, ma anzitutto uomo militante, responsabile dei suoi contenuti ideali, impegnato nella vita e nella politica, esperto personalmente delle passioni e del dramma degli uomini e della storia: ben diverso, ripeto ancora, dal Monti, che, per quanto cosí fortemente legato alle vicende e alle occasioni del tempo, non si sentí mai veramente responsabile dei contenuti e dei temi e problemi cantati, quanto della bella forma e della bella lingua poetica.

1. La vita

Nato a Zante (una delle isole Ionie, possesso della repubblica di Venezia) il 6 febbraio 1778 dal medico Andrea di antica famiglia veneziana e dalla greca Diamantina Spathis (primo di quattro fratelli: altri maschi e una femmina), il Foscolo (battezzato con il nome di Niccolò a cui poi egli aggiunse quello di Ugo, rimasto in seguito unico) passò la sua fanciullezza nella piccola isola greca (tanto da lui vagheggiata, anche se egli si considerò sempre veneziano e italiano) per vivere poi in Dalmazia, a Spalato (dove fece i primi studi), finché la morte precoce e improvvisa del padre indusse la madre a cercare aiuto e sistemazione, in verità assai modesta fin quasi ai limiti della povertà, a Venezia, dove il quattordicenne Ugo nel 1792 definitivamente si trasferí seguendo studi assai irregolari (fino a saltuarie frequenze dell’Università di Padova e delle lezioni del celebre Cesarotti), ma ben surrogati da una formazione di eccezionale autodidatta. Cosí fra il ’93 e il ’97 il giovinetto geniale e irrequieto (che colpí i suoi contemporanei per i rossi capelli, la povera palandrana verde, ma piú per la sua inesauribile loquacità e l’esuberanza dell’ingegno e del carattere) si impadroní fortemente dell’italiano, del latino, del greco antico, del francese e condusse avanti una vastissima lettura delle letterature classiche e moderne, applicandosi insieme ad un’esperienza diretta e precoce di poeta, presto imponendosi nell’ambiente letterario veneziano, cosí come presto la sua esuberante passionalità amorosa trovò sfogo sia in piú vaghi amori sentimentali, sia in avventure erotiche come quella con la celebre signora e letterata Isabella Teotochi-Albrizzi, cambiatasi poi in un’amicizia tenera e profonda.

Ma presto alla letteratura, alle amicizie, agli amori si intrecciò prepotente la passione politica, che portò il giovane Foscolo ad abbracciare con fervore le nuove idealità giacobine rivoluzionarie e divenire uno dei piú accesi promotori della trasformazione della vecchia repubblica veneziana oligarchica e aristocratica in repubblica democratica; atteggiamento che lo costrinse nel ’97 a fuggire da Venezia recandosi a Bologna (dove divenne tenente del corpo dei cacciatori a cavallo della repubblica democratica cispadana), per ritornarvi pochi mesi dopo quando i francesi appoggiarono i democratici veneziani nell’abbattimento della vecchia repubblica e nella costituzione di una repubblica democratica.

Breve, anche se intenso, fu il periodo di attività del giovane democratico a Venezia, ché il 17 ottobre dello stesso ’97 Napoleone, con il trattato di Campoformio, cedeva Venezia all’Austria, e il Foscolo, amareggiato e deluso non nelle sue idee democratiche, ma nella fiducia riposta in Napoleone (che aveva poco prima cantato come «liberatore» in una celebre ode), abbandonò Venezia e la casa materna e si recò a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina, collaborando al giornale «Monitore politico», come poi, passato a Bologna, nel ’98, collaborò al «Genio democratico» (fondato da suo fratello Giovanni) e al «Monitore bolognese», e insieme impegnandosi (mentre si manteneva con il modesto impiego di aiutante del cancelliere del Tribunale criminale) nella composizione della sua prima opera di vasto respiro, l’Ortis. Ma nell’aprile del ’99, di fronte all’invasione dell’Italia da parte delle armate austro-russe, egli riprese la divisa militare, combattendo valorosamente in Emilia e in Romagna (fu ferito a Cento), partecipando poi alla difesa di Genova assediata dagli austriaci e riportando un’altra ferita in un combattimento all’arma bianca. Ritornato (dopo la vittoria napoleonica di Marengo) a Milano, dopo varie missioni in Lombardia, in Emilia, in Toscana (dove a Firenze visse l’intensa passione per Isabella Roncioni), si fermò piú stabilmente (dal 1801 al 1804) nella capitale della Repubblica Cisalpina (divenuta poi nel 1802 Repubblica italiana) alternando l’intensa attività letteraria con nuove avventure amorose (come quella ardentissima per la marchesa Fagnani Arese) e con prese di posizione politiche che lo resero sospetto alle autorità francesi per le sue tendenze indipendentistiche da tempo manifestate. Sicché quando nel 1804 Napoleone venne preparando una spedizione, mai attuata, contro l’Inghilterra, il Foscolo (in parte per la sua non facile situazione politica, in parte per le ristrettezze economiche aggravate da un tenore di vita assai dispendioso anche a causa del vizio del giuoco) chiese e ottenne di essere inviato come capitano nella Francia del Nord, dove si raccoglieva l’armata napoleonica, e vi passò due anni assai tediosi e praticamente inattivi, ma non privi di attività letteraria e di nuove relazioni amorose, come quella con una giovane inglese da cui gli sarebbe nata una figlia, ritrovata solo molti anni piú tardi nell’esilio inglese.

Svanita l’idea napoleonica di un’invasione dell’Inghilterra, nel marzo del 1806 il Foscolo ritornava a Milano dove intanto era stato costituito il regno italico con Napoleone re ed Eugenio Beauharnais, suo figliastro, viceré: situazione politica che accentuò i dissensi politici foscoliani (ben presenti nel carme I Sepolcri, scritto poco dopo il suo ritorno in Italia) e contribuí (dopo la parentesi dell’insegnamento di eloquenza all’Università di Pavia nel 1808-1809) a render sempre piú difficile (insieme alle inimicizie letterarie, cui s’aggiunse quella del Monti, prima grande amico del poeta) la vita milanese del Foscolo, sempre piú sospetto come antibonapartista specie dopo la rappresentazione della sua tragedia, Aiace, e la proibizione delle sue repliche a causa delle allusioni antinapoleoniche presenti in essa, amplificate e precisate dai numerosi nemici del poeta.

Cosí, dopo alcuni viaggi e soggiorni a Venezia presso la famiglia materna o al castello di Belgioioso, vicino a Pavia, presso i suoi amici di quella principesca casata, e dopo un periodo di penose incertezze e di malattie a Milano, il Foscolo decise di lasciare il Regno italico e si recò nel 1812 a Firenze (allora capitale del regno di Etruria), dove rimarrà sin verso la fine del 1813, trovando nella città, nel paesaggio (specie durante la sua dimora in una villetta sul colle di Bellosguardo), nelle amicizie fiorentine, nell’amore generoso, fedele, pacato della «donna gentile» Quirina Mocenni, un agio, una tranquillità, un calmo clima singolarmente propizio al placarsi del suo animo irrequieto e passionale, e allo sgorgare della poesia delle Grazie (le cui parti piú significative furono composte appunto in questo periodo felice, che si stacca come una parentesi eccezionale di calma superiore, e non perciò, come vedremo parlando delle Grazie, priva di profonde venature elegiache e di riflessi delle drammatiche vicende storiche di quegli anni: la campagna di Russia e l’inizio del crollo napoleonico), in una vita dominata dalla irrequietezza, dalle passioni irruenti, dai contrasti violenti e dalle difficoltà pratiche e sentimentali di un carattere difficile e forte in cui la profonda aspirazione ad una superiore serenità e armonia era da tutto ciò fortemente ostacolata e resa ardua e mal realizzabile.

Ma quell’agio e quella condizione felice non poté resistere all’urto delle vicende storiche che ormai toccavano l’Italia e la investivano con l’invasione delle armate austriache. E il Foscolo, antinapoleonico per amore di libertà e di indipendenza nazionale, ma non perciò attratto dalla restaurazione degli antichi regimi e dal profilarsi del nuovo dominio austriaco, sentí il dovere di ritornare a Milano, deciso a riprendere l’attività militare e a combattere contro gli austriaci. Gli avvenimenti precipitarono, il regno italico cadde rapidamente e il Foscolo, dominato da un profondo moto di pessimismo, scontento e impersuaso dai tentativi delle deboli e contrastanti fazioni che a Milano si agitavano in vane speranze di sottrarre i territori del regno italico al dominio straniero o ad ottenere per essi dall’Austria condizioni di una certa libertà e autonomia, visse, fra il ’14 e l’inizio del ’15, un periodo dolorosissimo di incertezze che lo portarono, a un certo punto, a entrare in trattative con il maresciallo austriaco, Bellegarde, per la fondazione di un giornale (la futura «Biblioteca italiana») cui egli si illudeva di assicurare larga libertà di espressione. Fu questo uno dei momenti piú tragici della vita foscoliana: ma quando il poeta venne richiesto di un giuramento di fedeltà all’Austria e del suo passaggio nell’esercito austriaco, egli vide chiaramente l’abisso di disonore che gli si apriva dinanzi e, con decisione improvvisa, ma ben coerente alla linea fondamentale della sua vita di uomo e scrittore libero, di avversario della dittatura napoleonica, ma insieme di avversario profondo delle forze reazionarie e straniere, fuggí, la sera del 30 marzo 1815, da Milano e si rifugiò in Svizzera, con un atto che, malgrado tutti i precedenti della sua incerta e incauta condotta nei confronti dell’Austria, poté non ingiustamente essere interpretato ed esaltato nel pieno del Risorgimento come l’inaugurazione di una scelta, l’esilio, che tanti patrioti italiani faranno per amor di libertà e di patria negli anni della dominazione austriaca e della Restaurazione.

Non con ciò il Foscolo trovava, per gli ultimi anni della sua tormentata vita, una soluzione tranquilla e facile, neppure quando nel settembre del ’16 – abbandonata la Svizzera attraverso la quale aveva peregrinato stretto dalle difficoltà economiche – riparò stabilmente a Londra. Ché anche nel soggiorno inglese ad un primo periodo di accoglienze e protezioni entusiastiche successe una vita sempre piú amara e scontenta, in parte certo dovuta allo stesso comportamento del Foscolo, agli sbalzi dei suoi umori irrequieti (che gli fecero perdere molte amicizie inglesi e persino l’affetto di altri esuli italiani inaspriti anche dal suo scetticismo circa le sorti dell’Italia e dei primi movimenti risorgimentali), a certa accresciuta tendenza megalomane e al bisogno di un lusso cui non bastarono né il piccolo patrimonio, da lui dissipato per cattiva amministrazione, della ritrovata e generosa figlia Floriana, né i guadagni editoriali e giornalistici ottenuti con periodi di lavoro incalzante e faticoso. Né mancarono, ad accrescere i tormenti e le difficoltà del soggiorno inglese (pur, come vedremo, cosí fertile di lavoro letterario e soprattutto di geniale attività critica), le resistenti passioni amorose che, mal collocate e non ricambiate, turbarono anch’esse la vita disordinata, affannosa di un Foscolo precocemente invecchiato, ammalato, perseguitato dai creditori (specie dopo la rovinosa esperienza della sistemazione in una piccola villa, il celebre Digamma Cottage, troppo lussuosamente arredata, bisognosa di costosa servitú), costretto, dal ’24 in poi, ad abitare nei quartieri piú poveri di Londra, a celarsi spesso sotto falsi nomi. Finché dové ridursi nel ’27 a vivere in una miseria finalmente piú stoicamente accettata, in una casetta nel villaggio di Turnham Green, dove la morte lo colse, a quarantanove anni, il 27 settembre di quell’anno. I suoi resti furono sepolti nel cimitero di Chiswick, per essere poi, solo nel 1871, trasportati solennemente a Firenze e sepolti nella chiesa di Santa Croce accanto a quelli dei grandi i cui sepolcri il Foscolo aveva esaltato nel carme dei Sepolcri che gli italiani del Risorgimento e dell’unità nazionale sentivano come il massimo stimolo poetico-profetico al Risorgimento e all’unità dell’Italia.

2. La formazione e l’attività letteraria fino all’«Ortis»

Gli inizi dell’attività poetica foscoliana sono estremamente precoci. La forte personalità foscoliana e la sua vocazione poetica si vengono infatti esprimendo sin dagli anni dei primi studi a Venezia e all’esperienza rapidissima e vorace del giovanissimo lettore si intreccia un apprendistato poetico eccezionalmente rapido che assimila tutta una vasta serie di offerte della poesia del tardo Settecento; prima sperimentando, in una raccolta messa insieme già nel ’94 (la raccolta inviata all’amico e parente Costantino Naranzi), le forme della poesia anacreontica e amorosa di tipo tardo-arcadico e di un neoclassicismo leggiadro ed erotico in componimenti piú convenzionali e facili, ma già segnati da una mano abile e da una predilezione per moduli figurativi (specie le «Grazie» che poi tanta importanza prenderanno come simbolo dell’esperienza foscoliana all’armonia e alla serenità) riscaldati da venature tenere ed elegiache di un preromanticismo ancora ripreso nei suoi aspetti piú gentili e aggraziati; poi, dal ’95 al ’96, aprendosi ad una tensione sentimentale, passionale e ad un bisogno di poesia sublime e vaticinante, a un intervento personale del poeta nella storia, a un piú forte sfogo autobiografico che dan luogo a componimenti svarianti fra inquiete elegie amorose, sonetti autobiografici e dolorosi (come quelli assai notevoli che rievocano la morte del padre), odi enfatiche e scomposte che esaltando la grandezza sublime di Dante o cantando confusi argomenti religiosi e altrettanto confusi risentimenti e turbamenti del giovane scrittore nella crisi in lui provocata dalle tumultuose vicende storiche e da un primo incerto avvicinamento alle idee rivoluzionarie mostrano insieme le nuove esperienze di letture portate al livello di una poesia grandiosa neoclassica e preromantica insieme e gli sforzi irrequieti della personalità poetica in formazione di impegni piú ardui, scontenta delle prime esercitazioni piú leggiadre e facili.

In tal modo il Foscolo riassorbe e brucia rapidamente tutta una larghissima serie di letture e di modelli, si impadronisce, in maniera ancora convulsa e mal fusa, dei temi e delle forme stilistiche di tutta la letteratura settecentesca e contemporanea (e di gran parte di quella classica), mentre egli si proponeva (come può vedersi da un interessantissimo Piano di studi del ’96) un ancor piú ambizioso programma di allargamento della sua cultura non solo letteraria ma filosofico-politico-estetica e una progettazione ardita di moltissime opere personali, fra le quali andrà ricordata quella di un romanzo epistolare (Laura) che anticipa quella dell’Ortis in quella direzione di piú complessa narrazione fra autobiografica e inventata di una vicenda personale amorosa che risentiva evidentemente delle suggestioni dei celebri romanzi epistolari dell’ultimo Settecento: il Werther del Goethe e la Nouvelle Héloise del Rousseau.

Ma è nel ’97 che il giovane Foscolo supera questa fase di apprendistato e di piú incerti tentativi di trovar una propria espressione artistica, cosí come il suo già precedente avvicinamento alle nuove idee democratiche e rivoluzionarie e ai democratici veneziani si matura in una decisa e fervida accettazione di quelle idee e in una coerente partecipazione politica, prima cospirativa (finché a Venezia rimase in piedi la vecchia repubblica oligarchica), poi aperta e attivissima nella collaborazione al nuovo governo democratico veneziano.

Collaborazione attuata sia nei focosi interventi oratorii alle sedute della municipalità e della «Società patriottica» (assai interessanti a chiarirci il suo primo atteggiamento politico di tipo giacobino), sia in quanto poeta militante nell’Ode a Napoleone Bonaparte liberatore (si noti bene questa qualifica del grande condottiero che bene può spiegare i successivi dissensi foscoliani rispetto al Bonaparte spregiudicato politico e creatore di un dominio personale e dittatoriale), o in quella Ai novelli repubblicani in cui colpisce, accanto all’entusiasmo per la libertà conquistata, un ardente e quasi prevalente figurazione dell’uomo libero che preferirà il suicidio ad ogni ricaduta in una condizione servile, indicandoci come nel Foscolo sia fondamentale, accanto allo slancio vitale e al bisogno di affermazioni positive, un fortissimo fondo di pessimismo, un tormentoso, e spesso convulso, presentimento e vagheggiamento di situazioni eroiche-catastrofiche, e come sia difficile e ardua per lui la conquista di un superiore equilibrio, di una superiore serenità e armonia.

Ciò che si può verificare anche negli Sciolti al sole, in cui – in un nuovo possesso dell’endecasillabo sciolto, che sarà lo strumento metrico a lui piú congeniale nei capolavori dei Sepolcri e delle Grazie, e in un notevolissimo progresso stilistico – l’inno al sole come simbolo di vitalità si intreccia con visioni cosmiche pessimistiche e catastrofiche (la prefigurazione, sulla scorta della lettura cosí importante dell’Ossian, di un annullamento del sole stesso e dell’universo) e ancor piú nella tragedia Tieste (rappresentata con successo a Venezia all’inizio di quell’anno), nella quale erompe, in forme eccitate e spesso scomposte, un ardore di libertà e di amore contrastati dalla tirannide e dalle complicate vicende del cupo mito greco della scellerata famiglia tebana, sicché l’eroe protagonista troverà nel suicidio l’unica soluzione possibile al suo dramma (l’amore impossibile per Ippodamia e l’odio per il tiranno, il fratello Atreo).

Nel Tieste c’era già abbozzato il nucleo drammatico dell’opera in prosa con cui il Foscolo, già nel ’98 e nel 1802, darà piú complessa espressione al suo animo lacerato fra il bisogno di una vita superiore e alta, di un amore purissimo e appassionato, di una patria libera, unita, indipendente, e il sentimento doloroso di ostacoli radicati nella situazione storico-politica, nella realtà della vita pessimisticamente interpretata nonché nello stesso eccesso delle proprie passioni irrealizzabili e risolte solo nell’atto liberatore ed eroico del suicidio. Si tratta delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il romanzo epistolare che il Foscolo scrisse a Bologna nel ’98 in una prima redazione, interrotta dall’invasione austro-russa e dalle vicende militari che coinvolsero lo scrittore, e che poi riprese e rivide e completò a Milano fra il 1801 e il 1802, non senza rivederlo e arricchirlo ancora nel 1816 e nel 1817 con due nuove edizioni, dato che il poeta seguitò a lungo a sentire quel libro come un’opera essenziale alla sua stessa vita interiore, quasi un autoritratto romanzesco che poteva ancora arricchirsi di nuove note ed espressioni del proprio animo e della propria meditazione politica, storica, filosofica.

Perciò l’Ortis (in cui il Foscolo prendeva lo spunto dalla vicenda suicida di uno studente padovano, subito trasfigurandola alla luce delle proprie personali esperienze, passioni, ideali) è un’opera di eccezionale intensità, anche se la stessa prepotente presenza di motivi autobiografici può limitarne e turbarne, rispetto ad altre opere foscoliane piú poeticamente compiute e armoniche, il valore strettamente estetico. Ma in questa piú forte mescolanza di vita e di arte, in questa tensione autobiografica piú violenta e romantica (in cui prevalgono gli aspetti piú passionali e inquieti dell’animo foscoliano rispetto a quelli della vocazione all’armonia, alla serenità, o del distacco ironico e della saggezza disillusa e sorridente che pur fan parte essenziale della complessità foscoliana), l’Ortis è certo un libro di straordinaria vitalità e forza ed esprime insieme potentemente la crisi giovanile del Foscolo e la ricchezza esplosiva di tanti temi e motivi che il Foscolo riprenderà e svilupperà successivamente in piú equilibrata e artistica forma.

Tale forza esuberante e tale carattere di espressione di una crisi profonda e di una sofferenza personale, storica, politica, esistenziale, saranno in realtà consolidati interamente solo nella redazione completa, pubblicata a Milano nel 1802. La redazione bolognese (costituita da quarantacinque lettere che corrispondono alla prima parte del romanzo completo[1]) che appare in complesso come piú tenera e piú vagamente sentimentale e languida, piú dominata da un tono idillico-elegiaco che smussa le punte piú violente già affioranti, mentre la forza della prosa poetica ed eloquente che sarà piú sicura nell’Ortis milanese è ancora come attenuata e indebolita da eccessive citazioni di versi poetici altrui, da piú frequenti ritorni di echi della letteratura settecentesca, romanzesca e poetica, e l’elemento amoroso troppo ancora prevale su quello politico e i personaggi sono troppo tutti immersi in un’atmosfera piú blanda e non priva di languore anche in relazione ad uno schema di racconto in cui Teresa (la donna amata da Jacopo) è presentata come vedova e inizialmente innamorata di Odoardo, presentato a sua volta in toni non privi di simpatia e di nobiltà sentimentale.

Alla redazione milanese il Foscolo giungeva, maturato dalle complesse esperienze sentimentali, politiche, filosofiche fatte nell’intervallo fra 1798 e 1801-1802 (come l’amore fiorentino per Isabella Roncioni, le crescenti meditazioni politiche sulla situazione italiana in rapporto ai francesi, liberatori, ma anche dominatori pesanti e corruttori, le nuove meditazioni storico-filosofiche suggerite dalla conoscenza del pensiero vichiano favorita dalle conversazioni con l’esule napoletano, il Lomonaco), arricchito dalle stesse proprie esperienze letterarie e poetiche, rappresentate dai sonetti minori e dalla prima ode o da altri tentativi di romanzo autobiografico come il Sesto tomo dell’io, di cui parleremo in seguito.

Ne risultò, come dicevo, un’opera di bruciante novità e di sconvolgente aggressività passionale e ideale, costruita con un crescente ritmo drammatico e ricca di una tale carica di disperazione e di protesta che alcuni vecchi letterati settecenteschi, come il Cesarotti (che pur avevano tanto contribuito alla formazione delle tendenze preromantiche in Italia), ne furono colpiti come da un delirio che superava e spezzava ogni loro precedente ardimento e travolgeva ogni possibile compromesso fra passione e ragione, fra sentimento e saggezza. Si guardi anzitutto alla figura del protagonista, tutto abbandonato alle sue irruenti passioni, spregiatore di ogni calcolo e di ogni prudenza, avversario risoluto della fredda ragione in nome della passione e del sentimento, intollerante di ogni convenzione e di ogni limite alla propria libertà, bisognoso di una vita piena ed eroica e perciò frustrato nei suoi ardenti sentimenti, nel suo amore di libertà e di patria e nel suo amore per la «divina» fanciulla, Teresa, promessa sposa e poi legata contro la sua volontà dal vincolo matrimoniale a Odoardo, personificazione della mediocrità benpensante e calcolatrice, che egli ha incontrato nel suo rifugio nel seno della natura, sui colli Euganei, quando ha dovuto abbandonare Venezia tradita, con il trattato di Campoformio, da Napoleone.

La breve e scarna vicenda romanzesca (affidata all’espressione autobiografica delle lettere inviate da Jacopo all’amico Lorenzo) si svolge, con un accelerato ritmo drammatico, dalla narrazione dell’innamoramento del protagonista ricambiato da Teresa, ma reso impossibile dalla volontà del padre di questa che l’ha destinata alle nozze con Odoardo, all’improvvisa partenza di Jacopo dai colli Euganei per un suo viaggio irrequieto e angoscioso che lo conduce a Bologna, a Milano (dove incontra il vecchio Parini atteggiato, nel clima appassionato del romanzo, nelle forme di un personaggio di grande altezza morale, deluso nella sua speranza patriottica e fremente per le condizioni di disordine e di servitú della Repubblica Cisalpina dominata dai francesi), a Firenze (dove invano cerca di avvicinare, l’Alfieri, chiuso nella sua solitudine e nella sua opposizione ai tempi, e venera i sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce, sdegnato per la viltà dei loro discendenti degeneri, come aveva fatto a Ravenna e ad Arquà rispetto alle tombe di Dante e Petrarca), fino a Ventimiglia e alla frontiera fra Italia e Francia (dove svolgerà una grandiosa e pessimistica meditazione sulla sorte dell’Italia e su quella delle nazioni, sulla storia e sulla sorte degli uomini), per poi, infine, saputo delle nozze di Teresa, ritornare nei colli Euganei per uccidersi, come profonda protesta contro le delusioni politiche e amorose che lo hanno colpito e contro le condizioni di una realtà storica ed esistenziale troppo diversa dai suoi ideali e dal suo bisogno di vita alta e virile.

In quella vicenda si traduceva potentemente la crisi personale e storica del Foscolo (non del tutto dissimile da quella di molti giovani italiani delusi nelle loro speranze patriottiche e democratiche dalla situazione creatasi con il trattato di Campoformio e con la politica di Napoleone rivelatosi insensibile alle esigenze di libertà e di indipendenza dei repubblicani italiani) in tutta la sua complessità e profondità di significato che investe e coinvolge una crisi non solo politica, ma filosofica ed esistenziale, che nasce dal contrasto fra gli ideali e la realtà, fra l’ansia di vita e la sorte degli uomini soggetti alla legge meccanicistica e materialistica della natura, fra il razionalismo settecentesco e le nuove aspirazioni romantiche.

E se nella prima parte del romanzo il paesaggio dei colli Euganei e l’affiatamento del protagonista con gli aspetti piú dolci e amabili della natura (e la stessa estasi dell’innamoramento e della contemplazione della bellezza di Teresa) concedevano alla narrazione larghe pause piú idillico-elegiache e come momentanei sollievi dell’anima esacerbata di Jacopo, nella parte dedicata al viaggio errabondo per l’Italia scene e figure concorrono ad intensificare la drammaticità della vicenda, mentre l’elemento amoroso, che inizialmente era potuto apparire come un compenso divino alle pene del giovane deluso nelle sue aspirazioni politiche e patriottiche e al suo doloroso e pessimistico sentimento della sorte degli uomini, diventa – quando quell’amore si rivela impossibile – un incentivo del pessimismo e della disperazione del protagonista e un elemento (seppure centrali rimangono quello storico-politico e quello esistenziale) della sua risoluzione al suicidio.

Da questo libro appassionato e potente (anche se, come già dicevamo, convulso e non privo di enfasi ed eccessi di tono e di linguaggio) il Foscolo usciva come da una prova complessa ed esuberante delle sue forze di scrittore e con l’impostazione salda di alcuni temi e motivi fondamentali della sua poesia e della sua visione vitale, su cui avrebbe poi lavorato a lungo nel suo successivo sviluppo di uomo e di poeta sia cercando di rivedere, come con un maggior distacco e una maggiore sicurezza di rappresentazione poetica, alcuni di quei motivi essenziali autobiografici (l’attrazione verso la morte come suprema quiete e superamento del tormento vitale, il destino dell’esilio e della vita perseguitata ed errabonda, il sepolcro onorato di pianto e tramite di affetti e di ideali), sia cercando di superare la crisi pessimistica dell’Ortis con la creazione di illusioni vitali, filosoficamente e razionalmente qualificabili appunto come «illusioni», ma sentimentalmente e idealmente valide e capaci di sorreggere e alimentare vita personale e storica come veri e propri valori.

3. Sonetti e Odi

Abbiamo già detto che nell’intervallo fra la redazione bolognese e quella milanese dell’Ortis il Foscolo scrisse vari componimenti in versi, oltre ad alcuni frammenti in prosa di un altro romanzo, il Sesto tomo dell’io, che in parte poterono suggerire motivi alla nuova redazione ortisiana, in parte si disposero in direzione di un tono e di uno stile ironico, allusivo, sottile e antiretorico che troverà sviluppo piú tardi nella traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick dello Sterne e nella Notizia intorno a Didimo Chierico e dunque, come vedremo, in una prospettiva assai diversa da quella ortisiana.

Per quanto riguarda i componimenti in versi si tratta del gruppo maggiore di sonetti (tutti i sonetti foscoliani saranno dodici) e della prima ode, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, di cui parleremo insieme alla seconda ode, All’amica risanata, scritta, come gli ultimi e maggiori sonetti, nel periodo immediatamente successivo al completamento dell’Ortis, nel 1802-1803.

Gli otto sonetti scritti prima del 1802 (e pubblicati quell’anno) sono fortemente legati al clima drammatico e passionale dell’Ortis e a vicende e amori di quegli anni tumultuosi e irrequieti di cui, nella forma sintetica del breve e concluso giro del sonetto, esprimono momenti e impeti dell’animo foscoliano in uno stile lirico-drammatico contrassegnato da brusche e incalzanti aperture, da conclusioni energiche e vibranti, da gesti, interrogazioni, esclamazioni che sottolineano l’esuberanza, a volte eccessiva, declamatoria, enfatica, della passione e la ricerca insieme di comprimerla, non di smorzarla, in una concisione robusta e decisa, in un’articolazione nervosa e scattante. Stile e costruzione fortemente romantici, coerenti a questa rappresentazione mossa e tormentata di momenti del proprio animo presa fra aspirazioni intense e delusioni disperate, sia che si tratti del violento bisogno di gloria e di intervento del poeta militante (come nel sonetto «Che stai?» o nel sonetto autoritratto), o di estasi e affanni amorosi (come nei sonetti «Perché taccia il rumor», «Cosí gli interi giorni», «Meritamente però ch’io potei», «E tu ne’ carmi avrai»), o della passione patriottica (come nel sonetto «Te nudrice alle Muse» che polemizza contro l’abolizione della lingua latina negli atti ufficiali e nelle leggi della Repubblica Cisalpina), o di disperati sconforti e vagheggiamenti di suicidio (come nel sonetto «Non son chi fui»). E, come nell’Ortis, predomina in questi sonetti un paesaggio prevalentemente irto e selvaggio, rupestre e tormentato che trova la sua espressione piú intera nel sonetto «Meritamente però ch’io potei» e risente degli aspetti del paesaggio delle Rime dell’Alfieri, grande e precipuo maestro del giovane Foscolo pur in mezzo a molte reminiscenze di altri poeti, di cui la poesia foscoliana sempre si alimenterà, ma già ora, se non interamente riassorbite, certo dominate da una voce originale e nuova, di inconfondibile forza lirica.

Ma se questi sonetti «ortisiani» hanno già una loro autentica originalità e corrispondono ad una particolare ricerca, già spesso ben ispirata, di tensione, di movimento, di drammaticità, ben superiore è il risultato dei quattro sonetti che il Foscolo aggiunse in una nuova edizione dei sonetti del 1803 e che, come già dicevo, si situano nella situazione successiva allo sfogo passionale dell’Ortis, alla sua espressione di una crisi profonda, e di questa riprendono motivi e temi riportati e rielaborati come in una visione piú armonica e limpida che non perde il vigore drammatico, ma lo rappresenta con una compiutezza e con un distacco meno passionale e immediato, lo rivede come in una zona ancor piú intima e persuasa dell’animo e in un raccordo piú sicuro dei propri temi e tormenti autobiografici con una prospettiva piú universale della sorte umana e con un senso piú alto e severamente rasserenante della poesia e di quei compensi che alle pene degli uomini porta il sentimento e la contemplazione della bellezza (che già nel sonetto minore «E tu ne’ carmi avrai», dedicato al Lungarno fiorentino illuminato dalla bellezza della donna amata, Isabella Roncioni, aveva trovato una prima radiosa rappresentazione).

Proprio alla poesia, alla Musa, si rivolge uno dei sonetti maggiori («Pur tu copia versavi») che, rivedendo come da un punto di vista piú alto il tormento della propria vita attediata, inaridita e cosí diversa da quella eroica e piena vagheggiata dal poeta, che nella poesia avrebbe avuto, negli anni piú giovanili, cosí alto compenso, lo inserisce in una malinconica rappresentazione di tutta la vita umana soggetta al dolore e alla morte, e troppo raramente consolata dalla poesia, di cui il Foscolo ben fa avvertire (nella stessa dolce malinconia poetica che scorre in questo sonetto) il valore altissimo e rasserenante.

Di questo conquistato e piú maturo sentimento della poesia, liberata dagli eccessi oratorii dei primi sonetti, sono poi piú concreta prova i tre capolavori sonettistici in cui la lirica foscoliana raggiunge alcune delle sue vette supreme.

Sarà anzitutto, sul tema (già cosí presente nell’Ortis) dell’esilio e della morte, degli affetti domestici, dell’avversa e fatale sfortuna, del sepolcro non confortato dal pianto, il sonetto In morte del fratello Giovanni (morto precocemente per suicidio) che, con tanto superiore equilibrio di visione, di articolazione, di figure (quella della tomba del fratello su cui il poeta vagheggia di poter un giorno sedere e rievocare l’affetto profondo, quella della madre vecchia che col «cenere muto» del figlio morto parla dell’altro figlio lontano, quella della morte vagheggiata come quiete e termine di tante pene, quella delle proprie ossa immaginate, con incerta speranza, come restituite all’affetto della madre), svolge questa trama di sentimenti e immagini dolenti e drammatici in un disegno musicale sicuro e nitido, aperto da un movimento piú improvviso e animato (ma non oratorio e ad effetto, quanto piuttosto scaturito come da un lungo e tacito discorso interiore) e risolto in onde sempre piú malinconicamente pacate in cui il dramma non è negato, ma trasposto in un tono disacerbante e mestamente luminoso.

E cosí avviene, con una fusione visiva e musicale ancora maggiore, nel sonetto A Zacinto, in cui tutta la vita del poeta, fra la nascita nell’isoletta greca, con il suo fascino mitico, il destino di esule (paragonato e dissimilato a quello lungo, ma felicemente terminato di Ulisse), la prefigurata morte lontana dalla terra natale e il sepolcro solitario e non confortato di pianto, viene mirabilmente rappresentata nella sua sorte profonda e drammatica, suggellata nel grande finale dall’accordo con un fato superiore, la cui potenza necessaria e universale inserisce quella sorte nella generale sorte degli uomini e cosí in certo modo lo rasserena e purifica rivelandone appunto la fatalità dolorosa, ma universale e come tale virilmente compresa e accettata: mentre la «illacrimata sepoltura» condensa in un’immagine di stupenda nitidezza classica il romantico sentimento della morte e di quel bisogno di affetti intorno alla tomba, negato al poeta e insieme affermato sulla via di quella religione delle tombe che sarà al centro del carme I sepolcri. Quanta ricchezza di immagini favolose e nitide, di luce piena e sfumata, di vitalità e di sentimenti dolenti, di vicende illustri ed eroiche a cui il poeta avvicina la propria sorte, si raccoglie e si svolge, senza affollarsi e ostacolarsi, nel fluido e vibrante discorso poetico. Il quale – contrariamente a certe vecchie critiche incomprensive – si avvantaggia della stessa singolare costruzione: la sua continuità ininterrotta nelle due quartine e nella prima terzina cui risponde nella sua concisione sintetica e perfetta la breve misura dell’ultima terzina, tutta composta di parole essenziali e fatali.

Infine il sonetto Alla sera supera ogni occasione pur profonda e intima, ogni presenza di figure, di miti, presenti negli altri due sonetti A Zacinto e In morte del fratello Giovanni, in una meditazione lirica assoluta e perfetta, in una profonda voce dell’animo, in un movimento intimo che fonde sensazioni, sentimenti, pensiero e fantasia e che passa dall’iniziale invocazione alla sera (resa piú suggestiva dalla forma dubitativa: «Forse perché», che sostituisce ai bruschi inizi drammatici piú propri dei sonetti minori un pensoso affiorare del discorso poetico come da una lunga e complessa meditazione interiore e silenziosa) come immagine della morte («fatai quiete», dunque piú consolatrice che turbatrice), al fascino soave e puro delle due immagini (sera e morte) fra loro intrecciate, all’abbandono, senza enfasi e senza languore, al pensiero piú diretto della morte, del «nulla eterno» (coerente al pensiero materialistico del Foscolo) in cui le pene e gli affanni della vita si leniscono e si sciolgono con una mesta e soave serenità.

Anche qui il dramma di una vita piena di passioni tempestose, di un «reo tempo» (allusivo a tutta la drammatica interpretazione foscoliana della storia contemporanea e di tutta la storia umana), di un animo appassionato, bellicoso, eroico in lotta perenne e impari con la realtà ostile, non è ignorato ed eluso, ma è rappresentato con uno sguardo superiore che ne vede la precarietà e la risoluzione in un annullamento totale sentito come pace serenatrice, non come sgomento e ulteriore turbamento.

D’altra parte la via di un piú saldo superamento del dramma e della crisi ortisiana si affaccia (con ben diversa profondità e convinzione) nelle due odi in cui il Foscolo, che nei sonetti appare piú vicino a modi e toni romantici, si avvicina piú direttamente alle forme del neoclassicismo, con la sua eleganza nobile e il piú diretto ricorso alle immagini figurative, ai miti classici, al linguaggio eletto e nitido.

In realtà nella prima ode (quella A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, scritta nel 1800 durante l’assedio di Genova in un ambiente tra guerresco e galante quale era quello dei giovani ufficiali della Cisalpina, attivi nella vita militare e insieme partecipi alla vita galante e letteraria dei salotti aristocratici genovesi) piú che di un superamento del dramma ortisiano (entro il cui sviluppo quell’ode si inserisce) dovrà parlarsi di un momentaneo, anche se significativo, distacco da quel dramma e dal tumulto passionale che dominava il Foscolo di quegli anni: un distacco operato traendo dall’occasione galante (la caduta da cavallo di una gentildonna genovese e l’omaggio del poeta alla sua bellezza deturpata da quell’incidente, ma immaginata poi interamente restituita) lo spunto per un inno fervido e lieto, ricco di vitalità, di movimenti alacri e sorridenti pur nell’apparenza di un culto galante impegnativo e quasi religioso, di figurine e scenette mitico-erotiche snelle e fresche, dedicate a celebrare la bellezza femminile e il suo incomparabile fascino e valore nella vita umana. E certo, specie nell’agile e duttile scena della bella donna abbandonata alla danza e al canto, l’ode realizza una poesia assai lontana dalla tensione passionale e drammatica che predominava nei sonetti minori e nella direzione fondamentale dell’Ortis in via di elaborazione, e indica una via di rasserenamento e di sviluppo di temi (la divinità della bellezza, il suo potere consolatore e compensatore delle pene e delle cure della vita, la missione della poesia come esaltatrice della bellezza) che si staccano dal contesto di quegli anni e si aprono verso la zona posteriore dell’Ortis. Ma si tratta, ripeto, di un’apertura ancora acerba, immatura, piú frutto di un impeto e di una rivincita della vitalità che non di una maturata persuasione. E anche da un punto di vista stilistico la prima ode ritiene ancora molto del gusto galante, miniaturistico del ritmo celere e lieto di un classicismo settecentesco dai cui esempi (fra il Parini galante, il Savioli e altri scrittori erotici del tardo Settecento) il Foscolo riprendeva ancora molti spunti e immagini.

Sicché (pur in una certa continuità sul tema della bellezza femminile e sul tono dell’ode amorosa) la seconda ode (quella All’amica risanata: la contessa Antonietta Fagnani Arese amata dal poeta a Milano e destinataria di un folto gruppo di lettere foscoliane particolarmente belle e interessanti per la maturazione di una prosa piú sottile, elegante, allusiva di quella dell’Ortis e del Foscolo ortisiano) si colloca, in realtà, in una posizione molto piú complessa, nuova, alta di quella della prima ode e solo in essa si può realmente indicare una poesia a suo modo perfetta e una concreta realizzazione della tendenza foscoliana a superare la passionalità drammatica in armonia e serenità e la crisi pessimistica dell’Ortis in un’impostazione di nuovi valori, di compensi validi alla sorte misera degli uomini e alle loro vane e laceranti passioni.

Lo chiarisce bene la strofa in cui il Foscolo esalta l’«aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico ai mali / le nate a vaneggiar menti mortali», cui dovrà aggiungersi l’indicazione della poesia come destinata a immortalare e divinizzare quell’«aurea beltate» consolatrice e l’asserzione foscoliana di una propria naturale vocazione a tale missione anche per la sua origine greca, che lo riavvicinava alla poesia greca suprema creatrice di miti, in cui donne mortali erano state divinizzate al pari di quanto egli intende e sente di fare nei confronti della donna amata, ora, dopo una grave malattia, ritornata alla sua splendente bellezza.

Cosí la poesia vince la forza distruggitrice del tempo e della morte eternando il conforto della bellezza e aprendo una via salvatrice nella visione pessimistica della vita.

E tutto ciò – pur nei limiti di un conforto ora limitato alla sola bellezza e nei limiti quindi di un certo eccessivo valore concesso ad un solo elemento estetico – apre la strada alla concezione foscoliana della poesia come divinizzatrice ed elaboratrice di miti consolatori e alimentatori di vita e alla sua piú alta e complessa idealizzazione nel capolavoro dei Sepolcri, non è solo enunciato come il programma di una nuova poesia moderna e classica, ma è poeticamente fatto vivere nella concretezza estetica di questa grande ode, nella sua costruzione perfetta, nel suo linguaggio eletto e vivo, nella sua atmosfera luminosa e armoniosa, nell’organicità delle sue immagini e dei suoi movimenti cosí nitidi, ariosi, freschi, puri e sereni, nella sua capacità di fondere contemporaneità e mitologia classica in modi mai raggiunti da altri poeti neoclassici.

4. I «sepolcri»

Nel 1803 il Foscolo, dopo la grande concentrazione poetica dei sonetti maggiori e della seconda ode, attese ad un’opera di carattere apparentemente solo erudito (e certo sorretta da una forte erudizione e da vastissima conoscenza del mondo mitologico e classico greco-latino), ma in realtà non solo assai spesso ironica e quasi parodistica (con lo stesso sfoggio eccessivo della propria erudizione) nei confronti della sterile erudizione e dall’assoluta insufficienza dei grammatici e dei pedanti (chiamati duramente «anime di cimici»!) a comprendere la poesia e la storia, ma, anche e piú, interessante per le idee che il Foscolo vi esprime sulla poesia in genere e in particolare sulla propria direzione e concezione poetica, sulla propria «poetica», maturata fra sonetti maggiori e seconda ode e ora prospettata quasi a preparare e sorreggere le sue successive opere poetiche. Si tratta di quel Commento alla Chioma di Berenice in cui il Foscolo offre la traduzione in endecasillabi sciolti (il metro che d’ora in poi egli eleggerà come strumento unico della propria espressione poetica) del poemetto encomiastico del greco Callimaco, da lui conosciuto (il testo greco era allora perduto e ignoto) nella versione latina di Catullo, e la munisce di un imponente commento, sia in forme di note e di «considerazioni», sia come introduzione alla comprensione del poemetto in quattro lunghi discorsi di carattere storico, filologico, critico. Proprio questi discorsi costituiscono insieme un anticipo di quella piú impegnativa attività critica che il Foscolo svilupperà soprattutto nel periodo inglese e, come dicevo, l’esposizione della sua poetica piú direttamente attuata nel quarto discorso dedicato alla «ragion poetica» di Callimaco, ma in realtà rivolto a precisare intuizioni e meditazioni sul carattere e sulla funzione della poesia in relazione a un proprio programma poetico quale verrà concretamente attuato nei Sepolcri e poi ripreso e riveduto nell’ideazione successiva delle Grazie.

E se dal punto di vista della premessa della critica foscoliana sarà necessario ricordare l’affermazione secondo cui il commento a un’opera di poesia deve essere critico (per mostrare la «ragione poetica» che diresse la composizione dell’opera), filologico (per delucidare l’origine e il significato del linguaggio di quell’opera), storico (per illuminare i tempi in cui visse l’autore e i fatti da lui cantati), filosofico (per ricavare dall’opera le verità universali e rivolte all’utilità dell’animo umano a cui mira la poesia), ancor piú importante è puntare sui principi essenziali della concezione poetica che in quel discorso viene enucleata (non senza l’appoggio di fecondi elementi del pensiero estetico settecentesco del Vico, del Gravina e del Conti). Il poeta per il Foscolo deve essere creatore di miti storici e filosofici dotati di una funzione civile, di una loro forza didascalica tanto maggiore quanto meno esplicita e razionale e quanto piú, invece, fusa organicamente in immagini intuitive e autenticamente poetiche. Scartate quindi le vie di una poesia illuministica come arido ragionamento versificato o quelle di una poesia neoclassica in cui i miti antichi siano adoperati solo come bella decorazione, nonché quelle di un preromanticismo contenutistico, incapace di dar forma poetica a semplici moti sentimentali (e per di piú mal compatibile nelle sue origini straniere con la grande tradizione italiana nata da quella classica e specialmente greca), il Foscolo puntava su di una poesia neoclassica, ma profondamente moderna, capace di fondere profondità di contenuti e perfezione di forma, di cantare «memorabili storie, incliti fatti ed eroi», di «accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all’indipendenza, gli ingegni al vero e al bello», e, per far ciò, di «percuotere le menti col meraviglioso e il cuore con le passioni» (come facevano gli antichi poeti greci che «magnificavano le passioni umanizzando gli Dei e divinizzando i mortali»), di unire in sé il «passionato» (cioè le passioni vere e vive del proprio tempo, della propria società) e il «mirabile» (cioè l’elemento meraviglioso e mitico, sacro, ripreso dalla mitologia greca, sola mitologia e religione legata al mondo umano e alle sue passioni, sensazioni e azioni, laddove la religione cristiana non parla che di un’altra vita misteriosa e incomprensibile alla sensibilità e agli interessi terreni dell’uomo).

Di una simile poesia mitico-didascalica, mirabile-passionata, neoclassica-moderna, collaboratrice e fondatrice (con le sue forze e forme specifiche e autenticamente poetiche) di civiltà, di vita piú umana e alta, di sentimenti nobili ed eroici, il Foscolo non darà immediate e ispirate attuazioni nel periodo passato in Francia; nel quale egli invece inizierà la traduzione del romanzo dello Sterne e cercherà parziali espressioni poetiche del suo animo dolente e attediato, deluso e bisognoso di affetti (come avviene nell’affettuosa, ironica e amara Epistola al Monti), o tenterà l’ideazione di alcuni inni piú coerenti alla sua nuova poetica senza però attuarla se non nell’Inno alla nave delle Muse (frammento di un progettato poema su Alceo o la storia della letteratura italiana dalla rovina dell’impero d’Oriente ai dí nostri).

L’attuazione concreta, ispirata, organicamente potente della poetica del «passionato» e del «mirabile», della poesia come fondatrice ed eternatrice di valori umani e civili, di storia personale e universale, si realizzerà invece, come dopo una lunga incubazione e meditazione sulla propria vita, sui propri temi autobiografici e sui grandi temi della vita e della morte, della civiltà, della patria, della storia del suo tempo e di tutta la storia umana nel suo aspro e tormentato percorso da barbarie a civiltà, nella creazione geniale e rapida del capolavoro dei Sepolcri, nel 1806.

In quell’anno il Foscolo era rientrato in Italia e, mentre il suo animo si apriva ad un intenso calore ed esercizio di affetti nella ripresa di contatti con la vecchia madre visitata a Venezia e con fedeli amici veneti come la Teotochi-Albrizzi e Ippolito Pindemonte, e cresceva in lui un’ansia di creazione poetica, le condizioni del nuovo regno italico, con il suo chiaro carattere di stato vassallo dell’impero napoleonico e di «regno» con la sua corte e i suoi letterati cortigiani e servili (cose che peggioravano i difetti della Repubblica Cisalpina e poi italiana già cosí coraggiosamente indicati dal Foscolo nell’Orazione a Bonaparte del 1802), lo colpirono amaramente, esacerbando i suoi vecchi dissensi di patriota italiano e di liberale (anche se con una diminuita spinta democratica, esauritasi a poco a poco dopo gli entusiasmi giacobini del giovanile periodo di fine secolo) di fronte al regime dittatoriale di Napoleone e alla sua politica di asservimento degli stati vassalli italiani. Né mancò un’occasione piú immediata (l’applicazione al regno italico dell’editto napoleonico di Saint-Cloud che proibiva ogni monumento e segno di differenza fra i sepolcri) ad accendere (anche in seguito ad una discussione in proposito col Pindemonte, autore di un poema interrotto sui Cimiteri di carattere religioso cattolico, dalla cui lettura il Foscolo poté trarre non piú che qualche spunto generale) la fantasia del poeta, che fra la fine dell’estate e l’inverno del 1806 compose, con straordinaria alacrità, il carme I Sepolcri, dedicati al Pindemonte e pubblicati nell’aprile del 1807 a Brescia, dove il Foscolo aveva passato alcuni mesi, trovando sfogo al suo bisogno di amore nel legame con Marzia Martinengo, cosí vivamente presente in una serie di lettere amorose fra le piú belle dell’epistolario foscoliano.

In quel carme venivano cosí a confluire vigorosamente, sulla base di una discussione attuale e di una sdegnata presa di coscienza della nuova situazione italiana, aggravata agli occhi del Foscolo dalla creazione del regno italico, echi della copiosa letteratura sepolcrale sviluppatasi nel preromanticismo europeo (con le sue profonde implicazioni di sensibilità e sentimentalità di un’epoca di crisi tra il freddo razionalismo e la nuova esaltazione del valore del sentimento e con i suoi corrispettivi figurativi già applicati nella costruzione o nell’ideazione di cimiteri-giardini in cui il paesaggio era sentito come conforto di tombe eleganti e neoclassiche e luogo propizio ad una nuova religione dei sepolcri, ad ideali incontri e colloqui teneri e sollecitanti fra i vivi e i loro cari scomparsi), e soprattutto temi e problemi già vivi nelle precedenti opere poetiche foscoliane, ora ripresi e organizzati potentemente in una lirica esaltazione di illusioni-valori contrapposti alle conclusioni aride del gretto razionalismo, in un canto traboccante di vitalità, con cui il Foscolo, pur persuaso della materialistica verità dell’annullamento dell’individuo nella morte, intendeva opporre vita a morte, fondare una continuità di affetti e di amorose corrispondenze fra vivi e morti sia nella sfera degli affetti privati sia, e piú, in quella della civiltà, della storia, della tradizione e della vita nazionale.

Si badi bene che il Foscolo non accede ad una prospettiva religiosa di tipo trascendente, non ripudia la sua persuasione della legge meccanicistica e materialistica della natura e della vita, non nega il fatto tragico della morte come annullamento della vita individuale, ma, mentre accetta e severamente sottolinea la sua consapevolezza filosofica di tipo materialistico, tenta, con slancio possente, di creare – proprio partendo dal problema della morte – un arco di illusioni consolatrici ed energicamente alimentatrici di nuova vita e soprattutto di vita civile e nazionale, sorretto dal sentimento e dalla fantasia creatrice e capace di immortalare le vicende e le figure della storia passata, di vincere il silenzio con cui il tempo copre le vicende piú alte e consuma e distrugge le stesse tombe.

La visione della vita è nei Sepolcri pur sempre quella di un materialista pessimisticamente convinto della forma annullatrice e distruttrice degli individui, dei «mortali», soggetti appunto alla legge inesorabile della morte e della trasformazione della materia. A questa visione accettata dolorosamente, ma anche virilmente e senza speranze di aldilà ultraterreni, il Foscolo dialetticamente intreccia una linea ricostruttiva, una specie di cielo tutto umano di illusioni-valori che tanto piú appaiono luminosi e alti (frutto della forza sentimentale e fantastica, dell’energica volontà di vita e di civiltà propria degli uomini e specie di quelli grandi e completi) quanto piú cupa e dolorosa è la realtà retta da ferree leggi naturali e contrassegnata, per gli uomini, dal dolore, dall’infelicità, dalla morte.

Proprio questo intreccio e contrasto sono le molle possenti della poesia dei Sepolcri e della sua organicità dialettica, mossa, dinamica, che non avrebbe avuto possibilità di costruirsi tale se il Foscolo avesse solo cantato gli elementi positivi della sua visione della storia e della civiltà privandoli dell’enorme risalto che essi acquistano quanto piú si costruiscono e si affermano di contro ad una realtà dura e infelice. Sicché I Sepolcri non sono un semplice e ingenuo inno alla vita e ai suoi valori positivi, ma un profondo inno alla vita virilmente consapevole della realtà del dolore e della morte, dell’ingiustizia e della viltà di tanti uomini, persino della pratica sconfitta di eroi magnanimi, nonché della stessa caducità della terra e dell’universo. E non a caso il carme si chiuderà non con un inno inebriante all’eroismo vittorioso, all’eternità assoluta della stessa poesia immortalatrice, ma con il grandioso intreccio dell’esaltazione dell’eroismo patriottico generoso e sfortunato (personificato nel grande vinto dell’Iliade) e di un’amarissima asserzione della dolorosa sorte degli uomini e delle loro sciagure e del limite di caducità della stessa struttura cosmica:

E tu onore di pianti, Ettore, avrai

ove fia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato e finché il sole

risplenderà su le sciagure umane.

E del resto tale intreccio dinamico fra il pessimismo materialistico e l’idealismo delle illusioni-valori, fra il senso della morte e l’«armonia del giorno», ben corrisponde anche stilisticamente a quel procedimento di un energico «chiaroscuro», che lo stesso Foscolo indicò poi come segreto di questa sua poesia e che potrebbe venir dimostrato non solo nel contrasto efficacissimo di quadri mesti e desolati e di quadri vitali, sereni, luminosi (si pensi al contrasto fra il quadro delle tetre sepolture nel chiuso delle chiese cattoliche e il quadro luminoso e sereno delle tombe classiche in mezzo a giardini rigogliosi alla luce e all’aria di un paesaggio mediterraneo), ma anche all’interno di singole immagini e di singole scene: come, ad esempio, nel caso del sublime quadro delle Muse che siedono sulle tombe e, «quando / il tempo con sue fredde ali vi spazza / fin le rovine», «fan lieti / di lor canti i deserti e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio», dove è profondamente attuato il «chiaroscuro» fra l’opera distruttrice del tempo, lo squallore dei deserti e del silenzio di mille secoli e il canto rasserenatore e vittorioso della poesia che immortala le tombe anche distrutte.

Contrariamente a certe interpretazioni critiche che hanno considerato il carme come un seguito di liriche o di frammenti lirici congiunti da passaggi o transizioni di carattere piú ragionativo e intellettuale, I Sepolcri vanno intesi e compresi anzitutto proprio nella loro forza di organicità dinamica, nel loro sviluppo articolato e denso in cui pensiero e intuizione immaginosa si fondono in un momento di eccezionale potenza creativa. E meno importa se nell’afflato lirico di fondo si staccano a volte momenti piú enfatici ed eloquenti o momenti di minore altezza poetica, perché ciò che deve essere chiaro al lettore è la complessa organicità e la costante tensione di un componimento animato da un’ispirazione centrale che può sí mostrare a volte qualche caduta di tono o qualche eccesso di colore e di declamazione, ma che continuamente recupera la sua forza e il suo sviluppo tensivo e dinamico. E lo stesso elemento di eloquenza che concorre allo sviluppo della poesia del carme non è mai eloquenza insincera e falsa, ma espansione necessaria, anche se a volte eccessiva, di una poesia fortemente impegnata in un discorso lirico che vuol coinvolgere il lettore, portarlo a piú alte condizioni di sentimento, animarlo e persuaderlo verso un comportamento attivo, verso una collaborazione e partecipazione ai motivi espressi poeticamente e volti a fondere una civiltà magnanima e consapevole dei suoi doveri e compiti nella vita associata e nazionale. Poesia civile nel senso piú alto di questa parola, la poesia dei Sepolcri corrisponde alla poetica foscoliana che si propone non un canto disinteressato, tutto privato ed evasivo, ma una poesia altamente mitico-didascalica, senza perciò cadere in una nuda lezione in versi, dato che, viceversa, i motivi animatori del carme (appoggiati da una enorme mole di cultura e di riflessione storica, politica, filosofica) vivono sempre in forma di miti, di immagini, vivono cioè in una concreta forma poetica, sorretta da una straordinaria esperienza letteraria e stilistica e attuata in un inconfondibile linguaggio, ricco di sfumature e di toni, duttile e vario, ma con un fondo essenziale di energia appassionata e una essenziale tensione ad un’eleganza e perfezione necessarie a suggellare classicamente i moti di quell’energia e di quella forza espressiva.

Solo una rapida considerazione del carme nello svolgimento delle sue parti (quasi «tempi» musicali di una grande sinfonia) può permettere di dimostrare la forza e l’organicità di sviluppo dei grandi temi che vi sgorgano con incessante alacrità inventiva e con estrema densità di passaggi e di svolgimento, traducendosi in scene e miti poetici, «passionati» e «mirabili» (per usare le parole che il Foscolo adoperò nel Commento alla Chioma di Berenice ad indicare i caratteri della grande poesia e le aspirazioni del suo programma di poeta militante e classico-moderno), e sviluppandosi con un’enorme ricchezza di toni che rendono la poesia dei Sepolcri varia, ma sostanzialmente unitaria nel suo fondo già rilevato di intreccio e chiaroscuro di vitalità, di elaborazione di illusioni-valori e di lucida e persuasa affermazione dei limiti della realtà e della condizione caduca e dolorosa degli uomini.

La prima parte (fino al verso 50) è dominata da un tono di mestizia elegiaca e armonica coerente al problema della utilità o meno dei sepolcri: problema prospettato prima, attraverso interrogazioni dolenti e patetiche, nel suo aspetto negativo (con la morte tutto finisce per l’individuo e il sepolcro e l’omaggio funebre dei viventi al morto appaiono, da un punto di vista razionale, inutili e vani), e poi lentamente svolto nella risposta del sentimento che afferma, contrariamente alla fredda ragione, una possibilità di colloquio fra vivi e morti, di una speciale sopravvivenza del morto nelle soavi cure che egli ispira, intorno al ricordo sensibile del suo sepolcro, ai suoi cari, nella «celeste corrispondenza d’amorosi sensi» che nella religione delle tombe si stabilisce fra i vivi e il morto il quale continua a vivere negli affetti che il suo ricordo ispira ancora alle persone che lo amarono e lo amano.

Di questa «corrispondenza» per la quale «si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi» il secondo tempo (fino al verso 90) porta una poetica conferma che, mentre polemizza contro l’uso delle fosse comuni e anonime (rappresentato con toni desolati e lugubri, non privi di qualche eccesso di colorito macabro), rievoca la nobile figura del Parini (il cui cadavere fu abbandonato appunto in una fossa comune) e la sua poesia ammaestratrice e perfetta in toni affettuosi e solenni che preparano il passaggio alla terza parte fino al verso 150. In questa parte il tema dei sepolcri supera l’ambito di una corrispondenza affettuosa di carattere privato e si svolge in un grandioso tono maestoso e sacro, coerente alla nuova prospettiva in cui il valore del sepolcro è visto nella sua importanza storica, civile, patriottica, eroica.

L’uso dei sepolcri viene infatti legato alle origini stesse della civiltà, quando gli uomini, usciti dalla loro barbarie e ferinità originaria, stabilirono le loro fondamentali leggi di convivenza civile e la religione dei sepolcri divenne un elemento fondamentale nella continuità della tradizione e della storia civile: religione altamente attuata dagli antichi, greci e romani (che collocavano i sepolcri all’aperto, alla luce, in giardini ricchi di vegetazione e di vitalità, nella loro visione serena e consolatrice della stessa morte), e poi (dopo la brusca frattura di tale religione nell’uso medievale-cattolico di ospitare le tombe nel chiuso tetro e macabro delle chiese) ripresa, fra i moderni, dagli inglesi con i loro cimiteri-giardini dove l’affettuoso culto privato di affetti familiari si congiunge con quello civile e patriottico delle tombe di grandi personalità, di eroi nazionali, come è quello dedicato alla tomba di Nelson. Riferimento questo al vincitore di Trafalgar, all’avversario di Napoleone, che, mentre ben chiarisce la sottesa polemica antinapoleonica del Foscolo (sviluppata, subito dopo, in violenti toni satirici e sdegnosi, nell’accenno al «bello italo regno» in cui ogni vera vita eroica e nazionale è spenta dalla cortigianeria e dal vassallaggio agli stranieri), ben introduce, con una specie di impetuoso squillo eroico, alla quarta parte (fino al verso 212) dominata dalla piú diretta esaltazione delle tombe dei grandi e del loro valore fondamentale nella storia e nella rinascita di una nazione.

Questa parte centrale del carme è certo quella che piú direttamente corrisponde all’intento politico-civile del Foscolo, alla sua passione patriottica e nazionale, al suo gusto di poeta-profeta, di suscitatore di una ripresa di coscienza nazionale nell’Italia divisa e soggetta ai vecchi e ai nuovi dominatori. E se, proprio nella prepotenza di tale intento (che tanto affascinò e stimolò i lettori risorgimentali dei Sepolcri), la poesia foscoliana si esalta in forme piú eloquenti e a volte quasi enfatiche, tutta questa parte è tesa da un impeto travolgente, da una tale ricchezza e densità di immagini, personaggi e quadri in movimento continuo, da una tale forza di vitalità, che par gretto e improprio insistere solo su certo eccesso eloquente e non intendere la complessità inscindibile di eloquenza e poesia, lo sfocio di questo intreccio in una generale e superba tensione espressiva ed energica, capace d’altronde di scandire il suo esaltante crescendo attraverso la rappresentazione festante e luminosa della vitalità del paesaggio fiorentino (mai tanta vitalità era stata raccolta intorno alle tombe!) e i fulminei e profondi ritratti dei grandi italiani, fino all’auspicio, tratto appunto dalle loro tombe in Santa Croce, di un risorgimento dell’Italia, e al movimento finale in cui dalla Firenze affascinante di colori, di vita, di ricordi e di tombe grandiosi e stimolanti il poeta passa al paragone delle tombe di Santa Croce con le tombe eroiche di Maratona, anch’esse stimolatrici di azioni alte e patriottiche nella storia degli antichi greci.

Proprio attraverso la scena eroica e tumultuosa del campo di battaglia di Maratona («ove Atene sacrò tombe ai suoi prodi») il carme passa all’ultima parte, in cui il poeta si stacca dal mondo contemporaneo per approdare al mondo antico e mitico e attingere a quell’atmosfera grandiosa, leggendaria e supremamente nobile i toni piú puri, profondi, universali della poesia del carme.

Su di uno sfondo vastissimo, favoloso e mitico la poesia dei Sepolcri sembra superare e fondere in una voce piú profonda e perfetta i toni di sensibilità elegiaca, di solennità sacra della storia, di eloquenza grandiosa ed eroica che si erano preannunciati nelle parti precedenti.

Tutto è dominato dal valore di evocazione eternatrice e consolatrice della poesia-armonia che consola e supera (pur nei limiti di una realtà dolorosa e caduca mai perduta di vista) il silenzio dei secoli e l’opera distruttrice che il tempo esercita anche sulle tombe. Dai deserti desolati della regione dove un giorno sorgeva Troia la poesia evoca tombe e figure, anima la mesta e affettuosa preghiera di Elettra che chiede a Giove suo amante l’immortalità del suo sepolcro e il lamento profetico di Cassandra che annuncia insieme la sorte sventurata dei troiani e la poesia di Omero che eternerà sí la gloria dei vincitori greci, ma anche, e piú, quella di Ettore; l’eroe caduto difendendo la patria e destinato alla reverenza e alla compassione dei posteri finché vi sarà vita sulla terra e il sole «risplenderà sulle sciagure umane».

Cosí la discussione sul significato e il valore dei sepolcri si è trasformata in un inno sacro all’eroismo sfortunato, all’umanità infelice, ma capace di gesti eroici e generosi, e la poesia del carme è diventata come la voce sacra, solenne, purissima di tutta l’umanità, soggetta al dolore e alla morte, ma eroica e creatrice di valori superiori che la poesia immortala nella sua perfezione ispirata, nella sua unione di «passionato» e di «mirabile», nel suo carattere di «liberal canto» che implica nel poeta una profonda partecipazione alla storia e una profonda rivelazione di tutto ciò che rende nobile e alta la condizione umana pur nelle sue miserie e nella sua caducità.

Con i Sepolcri il Foscolo aveva creato, dunque, un altissimo capolavoro poetico e con esso era fortemente intervenuto nella storia del suo tempo sostenendo una concezione vitale, virile e sensibile, un costume sentimentale di grande nobiltà, un senso profondo della continuità storica e del valore della nazione e della patria che tanto influí sull’educazione degli uomini del Risorgimento, e, anche se ne sorresse piú una prospettiva nobilmente eroico-individuale e liberale che non un esteso sentimento sociale e democratico, contribuí a rendere l’azione del Risorgimento italiano illuminata dall’amore della libertà e del rispetto per tutte le patrie piú che dal desiderio di potenza e di sopraffazione degli altri popoli. Non a caso i Sepolcri furono il libro poetico preferito di un generoso uomo d’azione come Garibaldi.

5. Le «Grazie»

Con i Sepolcri il Foscolo ha raggiunto la maggiore organicità della sua poesia e la sua opera piú compatta e incisiva nella storia del suo tempo. Ma non perciò la sua ispirazione e la sua tensione poetica, il suo bisogno di una poesia profondamente rasserenatrice e armonica si sono inaridite e spente. Ché se, ripeto, egli non troverà piú la forza di organicità dei Sepolcri, la sua esperienza vitale e storica, la sua problematica culturale e ideale lo sollecitano a portare avanti la sua ricerca poetica, che, in forma piú episodica, ma altissima e coerente ad un ulteriore approfondimento delle tendenze del suo animo e del suo rapporto con la storia e con i problemi degli uomini, troverà il suo culmine di perfezione e di profondità nei passi piú centrali e significativi dell’incompiuto poema Le Grazie.

A questo poema il Foscolo pensava da tempo come all’attuazione di una poesia mitico-didascalica e civilizzatrice incentrata nel simbolo delle Grazie, datrici agli uomini di armonia, di serenità, di civiltà gentile e fraterna. Ma la sua creazione trovò condizioni e sollecitazioni propizie solo vari anni dopo la conclusione dei Sepolcri, nella singolare situazione vitale del soggiorno a Firenze nel 1812-1813.

Fra Sepolcri e Grazie non va però dimenticata l’attività del Foscolo professore all’Università di Pavia incentrata nella grandiosa Orazione inaugurale (in cui l’esortazione degli italiani alla storia, all’approfondimento della loro coscienza nazionale nello studio della loro tradizione, si collega con nuove potenti intuizioni sulla missione del letterato e del poeta, maestro ed esempio di libertà), ma anche segnata (specie nell’orazione Sulla origine e i limiti della giustizia) da una forte ripresa di un pessimismo che si alimentava dello stesso vigoroso realismo storico e politico con cui il Foscolo amaramente costatava l’impotenza di ideali non sorretti dalla forza e le difficoltà tremende dell’instaurazione della libertà destinata a degenerare in licenza e disordine, causa, a loro volta, di nuove tirannidi, come gli suggeriva la sua esperienza, passata dagli entusiasmi democratici e rivoluzionari giovanili alle delusioni crescenti provocate dalla dittatura napoleonica. Tormentoso problema che nel 1811 trovava profonda espressione drammatica nella seconda e maggiore tragedia foscoliana, l’Aiace, e nella rappresentazione, in quella, del dramma dell’uomo libero e generoso, Ajace, che, preso fra la perfidia di Ulisse e la prepotenza e la sete di dominio assoluto di Agamennone, e d’altra parte disgustato dalle lotte fratricide fra i greci, sceglierà il suicidio per liberarsi, inorridito di un mondo dominato dalla perfidia dei politici spregiudicati e degli aspiranti tiranni, e invano confortato dalla voce purissima della moglie Tecmessa che aspira ad una umanità generosa e fraterna.

Proprio dall’ingorgo potente fra vane e alte aspirazioni e delusioni pessimistiche profonde che anima quella notevolissima tragedia (cosí ricca di allusioni alla sofferta esperienza del dominio napoleonico) e dallo scontro rinnovato fra pessimismo e volontà di valori superiori traggono la loro origine e ragione piú interna le Grazie, mentre il lungo esercizio della traduzione incompiuta dell’Iliade (già iniziata al tempo dei Sepolcri e proseguita anche nel periodo piú tardo) collaborava in quegli anni alla formazione dello stile armonico delle Grazie, alla conquista in quelle di una perfezione e nobiltà musicale e figurativa suggerita dal grande esemplare omerico.

Né si dimentichi infine che accanto al lavoro di composizione delle Grazie nel periodo fiorentino il Foscolo riprese e portò a compimento la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick dello Sterne (iniziata nel soggiorno francese) e la muní di una introduzione, la Notizia intorno a Didimo Chierico, che, descrivendo la figura e i pensieri dell’immaginario autore della versione, Didimo Chierico, presentava in realtà un nuovo autoritratto foscoliano intonato, ben diversamente da quello drammatico e passionale dell’Ortis, ad una saggezza delusa e ironica, ad un ideale di superiore equilibrio e distacco espressi in una prosa (come è quella della stessa versione sterniana) misurata e allusiva, squisita e moderna, tesa a superare ogni impeto troppo brusco, ogni enfasi irruente di cui il Foscolo nello stesso periodo si scaricava nella terza e ultima tragedia, la Ricciarda, di cupo soggetto medioevale e appunto sfogo di tendenze piú passionali che il poeta delle Grazie, come il traduttore di Omero e di Sterne, mirava a superare in un’arte piú serena e armonica. Le Grazie sono cosí frutto di un nuovo svolgimento della problematica e della personalità foscoliana e di un perfezionamento ulteriore della sua arte piú matura.

Come già dicevo, l’impegno poetico delle Grazie trovò condizione propizia nel soggiorno fiorentino, quando il Foscolo (allontanandosi da Milano, dalle polemiche che in quella città aveva sostenuto con avversari letterari, dai sospetti e dalla vigilanza del governo del regno italico) visse in un singolare equilibrio, in un ricambio felice tra la solitudine, goduta sopra tutto nella villetta di Bellosguardo e rare, ma fedeli amicizie e affetti, creando nel proprio animo una specie di atmosfera serenatrice in cui le stesse notizie dolorose della storia di quel periodo (la campagna di Russia e l’inizio del crollo napoleonico e la perdita in guerra di giovani amici) potevano ripercuotersi senza violenza e come depurate del loro peso piú immediato e cupo.

E proprio in questo consiste la prima ragione della poesia delle Grazie nei loro centri ed episodi piú significativi, nel loro tono fondamentale, che non è di pura e semplice evasione dalla realtà e di egoistica e facile serenità, ma si prospetta come una serenità e un’armonia conquistata con un lavoro interno dell’animo e della fantasia, volto a far vivere anche sentimenti di dolore e di infelicità (e il senso mai spento della caducità e sventura dei mortali) in un clima rasserenato e armonico, in una centrale tensione a creare, nella poesia, valori di gentilezza, di pietà, di civiltà umana e generosa, opposti agli istinti piú ferini e alle passioni piú brucianti e violente insiti nella natura umana e nell’eredità lasciata agli uomini civili dai loro lontani progenitori barbari e bestiali.

Il poema (inizialmente concepito come un solo inno e poi ampliato in tre inni mai completati a causa di una diminuita forza organica dell’ispirazione foscoliana e della complicatezza crescente di intenzioni allegoriche che il poeta venne successivamente escogitando e moltiplicando) ha cosí il suo centro essenziale nell’aspirazione del Foscolo a creare valori di una civiltà superiore e piú umana, di un’armonia serena ed equilibrata (di cui immagina divine datrici le Grazie) che dovrebbero contrapporsi agli istinti ferini e crudeli, alle passioni brutali che rendono infelice e tormentata l’umanità.

Né si tratta di una facile vittoria, ché quegli istinti (e specie quello della «fraterna rissa» e della «fraterna strage» cosí evidenziati proprio nelle contemporanee guerre napoleoniche) covano nel profondo dell’animo umano e son sempre pronti ad esplodere e divampare se le virtú della gentilezza, dell’amore, della libertà, della giustizia, della bellezza e delle belle arti rasserenanti non vengon ad essi continuamente e laboriosamente contrapposti.

A questa aspirazione fondamentale corrisponde la trama del poema incompiuto. Il primo inno, dedicato a Venere, canta la nascita delle Grazie nel mare greco e i primi progressi della civiltà nel suo distaccarsi dalla primitiva barbarie. Il secondo, dedicato a Vesta, trasferisce la scena sulla collina fiorentina di Bellosguardo dove il poeta immagina di innalzare un altare alle Grazie e chiama a celebrarne il culto tre donne da lui vagheggiate o amate (Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti, Maddalena Bignami) come sacerdotesse delle arti della musica, della danza, della poesia. Il terzo inno, dedicato a Pallade, si svolge nella favolosa Atlantide e narra come Pallade Minerva, che ha lasciato gli uomini sdegnata per il persistere delle loro passioni e delle loro guerre fratricide, faccia tessere da alcune dee minori un misterioso velo che dovrà proteggere le Grazie dall’ardore delle passioni umane e cosí renderle capaci di scendere fra gli uomini a compiere la loro missione di incivilimento e di rasserenamento.

Sulla base di questa trama, solo in parte tessuta, la poesia delle Grazie si sviluppa con varia forza poetica, scendendo a volte in forme di troppo compiaciuto descrittivismo ornamentale e allegorico di un’eleganza neoclassica piú fredda e raffinata, ma spesso raggiungendo una eccezionale fusione di sentimenti di figuratività, di musicalità in cui una profonda vibrazione intima risuona con suprema delicatezza e armonia serena (anche quando il suo fondo è elegiaco o addirittura drammatico), si svolge in immagini e cadenze musicali quasi impalpabili e irradianti una luce aerea e suggestiva, permea di sé paesaggi incantati e immacolati, figure arcane e mitizzate, suscitando nel lettore quella specie di «calore di fiamma lontana» (per usare un’espressione della Notizia intorno a Didimo Chierico) che rappresenta il culmine di una poesia passata attraverso tante forme e toni e ora giunta a questa suprema misura di sentimento e di arte, a quella «arcana armoniosa melodia pittrice» con cui il Foscolo fondeva i toni piú profondi del suo animo poetico e le stesse tendenze romantiche e neoclassiche e con cui egli pur intendeva offrire una consolazione e un aiuto a tutti gli uomini, ma in particolare all’Italia «afflitta da regali ire straniere». Una poesia dunque di altissima qualità artistica, ma insieme pur sempre destinata dal poeta ad una missione di consolazione e di incivilimento sia nei confronti dell’amata Italia sia nei confronti di tutta l’umanità.

Perciò le Grazie (malgrado pericoli e cadute effettive in forme troppo compiaciute di eleganza e di complicato intellettualismo allegorico) non vanno intese come una forma di totale evasione dalla realtà, ma come un nuovo e singolare modo di elaborare poeticamente valori e sentimenti pur destinati alla vita umana e ad un suo superiore incivilimento. E nella loro poesia, ripeto, non si tratta solo di arte squisita, frutto di un neoclassicismo elegantissimo, ma freddo, ché viceversa il profondo neoclassicismo foscoliano è tutto venato e permeato di un intimo calore di sentimento e la sua limpida e nitida figuratività e musicalità, la sua voce soave e suggestiva vibrano profondamente dei sentimenti e delle prospettive civili e umane del Foscolo, mai veramente staccato dalla partecipazione e dalla continuità dei suoi temi spirituali-poetici.

Si pensi almeno, come all’episodio piú altamente significativo di questa complessità, umanità, storicità della poesia delle Grazie, al lungo passo del velo delle Grazie, introdotto dalla narrazione della dolente e indignata fuga di Minerva dalla terra degli uomini. Già questa narrazione è ben significativa, ché Minerva lascia gli uomini vedendoli abbandonarsi alle loro guerre fratricide, ma non senza consegnare la lancia di Giove a quei principi che combattono non in guerre di conquista, ma per difendere la libertà e le leggi dei loro popoli aggrediti da tiranni stranieri: chiara conferma della posizione foscoliana che condanna le guerre imperialistiche e aggressive (come quelle napoleoniche), ma giustifica quelle di difesa delle nazioni e della libertà.

Poi, rifugiata Minerva nell’Atlantide, si assiste alla tessitura del velo, nel quale vengono effigiati scene e miti ben corrispondenti ai sentimenti fondamentali degli uomini e ai valori che il Foscolo sentiva necessari ad una civiltà superiore e liberata dalle passioni brutali e crudeli.

Saranno cosí rappresentati nel velo la scena della vaga e lieta-malinconica figura della giovinezza che scende il clivo dell’età verso la morte destinata a tutti gli uomini, ma illuminata dai ricordi luminosi dell’età giovanile, la scena delle tortorelle simbolo vivo e delicato dell’amore fedele e casto, la scena del guerriero vincitore che, pietoso e umano, sospira per la sorte del suo prigioniero, la scena del convito amichevole e lieto in cui il primo posto è attribuito all’ospite esule dalla sua patria, infine quella della giovane madre trepidante per la vita del suo piccolo e ancora ignara dell’amara sorte dei mortali che dovrebbero preferire la morte precoce ad una vita turbata dalle sventure e dalle passioni.

Proprio quest’ultima scena, con il suo finale accento elegiaco e mesto, ben fa avvertire come anche nelle Grazie il Foscolo non perdesse mai di vista il fondo triste e doloroso della sorte umana e non vivesse in una condizione di semplice compiacimento edonistico, di serenità facile e di saggezza indifferente. Sicché la sua prospettiva di una poesia consolatrice, disacerbante e civilizzatrice, sempre ben mantiene il fondo di una coscienza virile della realtà umana e cosí tanto piú altamente realizza l’aspirazione ad un’armonia e serenità che è pur ben consapevole dei limiti da vincere o da attenuare in un intimo, incessante lavoro spirituale.

6. Il periodo inglese e l’attività critica

Se nel periodo dell’esilio a Londra il Foscolo non cessò mai di perseguire, invano, il completamento delle Grazie, la sua forza poetica era ormai in declino. Certo le sue qualità artistiche trovavano ancora un risultato di singolare finezza e humour nella prosa delle Lettere dall’Inghilterra (o Gazzettino del bel mondo) che sviluppano – nella descrizione ironica del mondo snobistico degli aristocratici italiani in confronto con quello inglese – la direzione di stile della versione sterniana e della Notizia intorno a Didimo Chierico, ma l’aspetto piú importante dell’attività letteraria di questi ultimi anni della vita foscoliana va riconosciuto nella imponente produzione critica. Il poeta cosí dotato di consapevolezza critica e teorica svolge ora il suo profondo amore della poesia, piú che nei tentativi di completamento delle Grazie, nella interpretazione e ricostruzione critica della poesia dei poeti e scrittori italiani e nella impostazione di problemi di teoria estetica sorretti dalla propria personale esperienza di poeta.

In tale attività feconda di opere vaste e impegnative (i Saggi sul Petrarca, il Discorso sul testo della Divina Commedia, il Discorso storico sul testo del Decamerone, il saggio Sullo stato attuale della letteratura italiana – redatto in inglese dallo Hobhouse, ma certamente tratto da appunti foscoliani – o quello Della nuova scuola drammatica in Italia o i Discorsi sulla lingua) il Foscolo si afferma come il maggiore critico del primo Ottocento e tale rimasto fino al De Sanctis.

L’originalità della sua critica, appoggiata ad una base di robusta meditazione teorica, ad una forte preparazione filologica, ad una solida conoscenza della storia, consiste appunto in un’integrale capacità di ricostruire la personalità e l’opera degli autori studiati in tutta la loro complessa interezza personale e storica, nel loro carattere umano e nella loro psicologia (si pensi in tal senso soprattutto ai bellissimi Saggi sul Petrarca), nelle condizioni storiche del loro tempo e nelle individuali caratteristiche del loro linguaggio e del loro stile (si pensi in tal senso al Discorso sul testo della Divina Commedia, all’esame in quello del canto di Francesca, all’interpretazione suggestiva, anche se non accettabile, del poema dantesco come opera di un ribelle ereticale). E insieme si ricordi come, dall’esame e dalla ricostruzione critica di autori, periodi e problemi di storia letteraria, il Foscolo sappia enucleare proposizioni di teoria estetica che, ben coerenti alla sua personale poetica, fanno di lui uno dei piú originali indagatori del fenomeno artistico nella sua profonda unione di verità e idealità, di «passione divorante e pacata meditazione», di risultato stilistico che sempre implica «tutte le forze dell’uomo».

Sicché può ben dirsi che dal grande poeta era nata una grande critica di esemplare complessità e che con questa nuova estrinsecazione del suo genio la grande personalità foscoliana si completa come quella che domina l’epoca fra neoclassicismo e romanticismo e ne media e fonde originalmente i succhi e le tendenze piú profonde.


1 L’editore Marsigli di Bologna volle far completare il romanzo interrotto, per la partenza del suo autore, da un mediocre letterato, Angelo Sassoli, che accentuò il carattere patetico dell’Ortis riducendolo ad un romanzetto sentimentale, privato (anche per ragioni di opportunità politica) di ogni riferimento alla situazione politica e di ogni affermazione pericolosa da un punto di vista ideologico e religioso.